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Duterte il presidente che fa uccidere i pusher

MANILA. Il primo pusher stramazza dove comincia Quezon City, il Cristo dell’Iglesia Luzon è solo una statua di pietra e i poliziotti possono scaricare senza timore di Dio la doppia canna d’ordinanza sul corpo di Ariel Tabucuran, detto Aying, 22 anni di spaccio e chissà cos’altro. Sono le 2.30 a Manila e un’altra notte di strage è appena cominciata. “Quanti morti? La sera dei record ne abbiamo contati 22. E chi se la scorda più quella settimana di settembre”, dice Linus Guardian Escandor II, l’ex fotografo del Manila Bulletin che da quando tutto questo è incominciato s’è messo in proprio per tenere un diario dell’orrore. Anche stanotte la pattuglia è arrivata fin lassù seguendo la solita soffiata, a Old Balara c’è una “shuba session”, il party dei poveracci dove ci si sballa con le anfetamine. Lo spacciatore è saltato fuori da quella porticina al numero 123 che adesso è circondata dai nastri gialli: “Police Line Do Not Cross”. La scritta “Mafia” sul muro macchiato di sangue sembra lasciata lì da uno sceneggiatore di polizieschi di serie B e invece è tragicamente vera come l’insegna sgangherata del “Mary Jane Store” di fronte che promette “Fruit Soda & Juicy Lemon”. Ti dicono, lo fanno sempre, che lo spacciatore ha reagito, “He fought back”: ma lo sanno tutti che il tentativo di reazione è solo un trucco per giustificare la strage dei 4700 morti, ultima incredibile conta nella guerra alla droga di Rodrigo Duterte, il presidente- sceriffo che sta trasformando in Far West questo popolosissimo arcipelago del Far East, più di 100 milioni di anime. Una carneficina. Venerdì notte l’esecuzione è avvenuta perfino in prigione. Rolando Espinosa, l’ex sindaco di Albuera accusato di narcotraffico, è stato ammazzato con la scusa che proprio lì, dietro alle sbarre però armato fino ai denti, avrebbe reagito alla perquisizione delle guardie: sicuro che è andata così, come no.

“Ha reagito”. E si spara a bruciapelo, senza arresto né processo, secondo la legge di questi tropici neppure troppo tristi se ti lasci incantare dai lussuosissimi mall di Makati circondati notte e giorno da eserciti di vigilantes, e soprattutto se guardi alle cifre del Pil che continua a crescere del 7.3% l’anno: fino a quando l’occhio non ricade sull’indice di povertà ancora inchiodato alla media agghiacciante del 26%, più di uno su quattro sotto la soglia di sussistenza. Quanti poveri cristi si nasconderanno, per esempio, nei vicoli del Barangay Poblacion? Qui il “tandem”, la moto dei giustizieri mascherati che viaggiano sempre in due, e fanno il lavoro ancora più sporco di quello che fa la polizia, arriva un’ora più tardi: sono le 3.30 e quel che resta di Nemencio Roque, 64 anni, è il corpo senza vita che indovini alla fine del vicolo buio. L’indirizzo sembra anche questa una licenza da B-movie, Paraiso 333, dove il civico del Paradiso è l’altra metà del numero dell’Inferno. Nella stanza accanto una ragazzina continua a stirare, canta già il gallo e lo spacciatore è disteso lì per terra, i pantaloncini bianchi e viola, il ventilatore che gli è finito addosso nella caduta. Cronaca di una morte più che annunciata: Nemen Manila, una notte all’inferno. Il racconto del Far West quotidiano nelle strade della capitale filippina. E per evitare l’agguato spacciatori e consumatori si denunciano da soli cio era da tempo nella lista dei consumatori- spacciatori del Barangay, il vecchio barrio, cioè nella lista dei morti viventi, altro che i “Walking Dead” dello show ispirato al serial tv che per una spiacevole coincidenza proprio in questi giorni va in scena qualche chilometro più in là, fino ?all’11novembre, all’Eastwood Central Plaza.

“Funziona così”, spiega padre Jerome Secillano, “la polizia compila una lista di spacciatori e consumatori, molti ormai si denunciano da soli sperando almeno di evitare di finire in una soffiata: se ti beccano un’altra volta sei praticamente certo che la prossima vittima sarai tu”. La parrocchia di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso è alla fine di un incubo di strada chiamato Calamba Coronel, perfino i taxi si spingono fin qui solo dopo lunga e costosa contrattazione. “Siamo terra di confine tra Intramuros e Quezon City, la vecchia e la nuova Manila: e ogni notte, qui, c’è qualcuno che ci lascia la pelle”. La Vergine di Guadalupe domina il salottino con altarino e acquario dove padre Jerome offre caffè forte e parole di saggezza, come la Mother Mary dei Beatles “speaking words of wisdom”: ma “Let It Be”, così sia, è una preghiera che a Manila recitano al contrario.

Le proteste dei parrocchiani contro le prediche inutili sono nulla di fronte alle minacce che padre Secillano, che è pure il portavoce della conferenza episcopale, continua a ricevere sui social network. “Ci ha provato anche l’arcivescovo, Socrates Villegas, con un pronunciamento pastorale. Citava il Vangelo: “Trasformerò la vostra paura in gioia””. Figuriamoci se il presidente che bestemmia e dà del “figlio di”, oltre che a Barack Obama, pure a Papa Francesco, si fa zittire da una parabola. “Per tutta risposta ci ha dichiarato guerra, un’altra. Sfidando il no della Chiesa alla pena di morte, che il Congresso vuole reintrodurre entro la fine dell’anno. E sapete che cosa vuol dire in un Paese dove anche la giustizia è così corrotta?”. Cosa vuol dire lo sa benissimo un signore che si chiama Steve Cutler e negli ultimi trent’anni qui nelle Filippine ha visto di tutto: con il piccolo aiuto dei suoi ex colleghi dell’Fbi. Oggi Stephen P. Cutler, laurea in criminologia e fiorentissimo business nel comparto sicurezza, non teme di fare l’avvocato del diavolo inteso come Duterte: “Ma come pensavano di liberarsi di una tragedia come la droga?”. Per il Dipartimento di Stato americano oltre il 2 per cento della popolazione fa uso di stupefacenti, le Nazioni Unite hanno incoronato le Filippine capitale delle anfetamine e un’inchiesta giornalistica della tv di Manila Abs- Anc parla di giro d’affari da 8.2 miliardi di dollari. “Però finora in questo Paese arre- stare uno spacciatore era praticamente impossibile: per legge serve la presenza congiunta di un funzionario locale, di un avvocato e anche di un rappresentante dei media”. Domanda: non era meglio cambiare la legge? Nel giardino tropicale dell’americanissima “Coffe Bean”, al Greenbelt dell’Ayala Center, di fronte allo storico Hotel Peninsula, l’ex agente non si scompone: “Hanno sopportato anni di legge marziale, controlli e arresti senza mandati: nessuno oggi rinuncerebbe mai più a certe garanzie”.

Peccato per i danni collaterali. La bambina di 5 anni finita in agosto sotto il fuoco della polizia. Le esecuzioni senza processo. “Per non parlare dei cosiddetti vigilantes: che cosa succederà quando questa gente si accorgerà che può andare in giro a farsi giustizia da sola e restare impunita? “. Magari succederà quello che è già successo in una città chiamata Davao, dove Rodrigo “The Punisher” Duterte ha regnato come sindaco per decenni. Anche lì la guerra alla droga l’hanno combattuta soprattutto i vigilantes, gli squadroni della morte che arrivano dove non basta la polizia: e che cosa è successo? Niente. Anzi è cominciata proprio così l’ascesa dell’uomo che allora giurava di far ingrassare i pesci della sua isola con i cadaveri dei criminali e oggi invidia Adolf Hitler per aver ucciso, dice lui, 3 milioni di persone: il numero di drogati e trafficanti che vorrebbe egli stesso ammazzare. Anche per questo Leila De Lima aveva chiesto di aprire un’indagine su tutti quei morti nella capitale: davvero agisce solo la polizia, cos’è questa storia degli squadroni? Il presidente ha risposto con stile: il suo. Accusando la signora di una relazione sentimentale con l’ex autista e guardia del corpo - nonché sospetto trafficante. De Lima non è una semplice senatrice: è l’avvocato di grido che Gloria Arroyo, l’ex presidente che cancellò la pena di morte, nominò a capo della commissione per i diritti umani, e Benigno Aquino, altro ex inquilino del Malacanang, il palazzo presidenziale, volle al dicastero della giustizia. Anche lei, dunque, è finita nella lista nera: proprio in queste ore Jaybee Sebastian, un boss in cella, l’ha accusata di aver approfittato del traffico di droga nella prigione di New Bilibid.

La senatrice, che non ha risposto a due richieste di intervista di Repubblica, nega e ribatte: “Sebastian è stato costretto, fa parte del suo patto con le forze del male, per lui è una questione di vita e di morte”. Solo per lui? Ci vuole uno stomaco così per non farselo strizzare di questi giorni a Manila. Ci vuole uno come B.L., che di professione fa, anzi faceva, il poliziotto: “Il prossimo della lista sono io” dice abbassando per una volta lo sguardo in uno dei tanti caffè ristorante di Adriatico Street, tra lo struscio dei turisti locali e l’immancabile troupe tv in cerca di folklore. B. L. è stato temporaneamente allontanato con l’accusa di far parte della popolatissima pattuglia dei ninja-cops: i poliziotti- spacciatori. Anche lui, ovviamente, nega. E spiega che la sua unica colpa è essersi messo di traverso in un trasferimento importante. Bisognava fare spazio agli uomini di Ronald dela Rosa, il generale con una sola stella che dalla sua Davao, dove aveva guidato la prima, sanguinosissima guerra alla droga, sempre Duterte ha promosso armi e bagaglio a nuovo capo della polizia. “Sapete quanto può arrivare a guadagnare un poliziotto? Ventiseimila pesos al mese. E sapete quanto valgono gli spacciatori morti ammazzati? Diecimila pesos se il morto porta un calibro 38. Venticinquemila se porta un calibro 45”. L’ammazzatina della polizia a cottimo e a peso d’arma sarebbe, se provata, l’ultima vergogna di Manila: e spiegherebbe anche l’escalation di morti firmata dalla polizia. Ma B. L. giura sui suoi due figli che c’è di peggio. Racconta di un altro collega “condannato a morte perché accusato di droga. Era musulmano.

E una delle sue donne aveva una relazione con uno spacciatore: è bastato”. La tecnica è sempre quella: ucciso da altri poliziotti perché, dicono, cercava di reagire. “Nessu- no sa nemmeno i loro nomi. Nessuno sa nemmeno se siano davvero tutti poliziotti”. Nessuno sa neppure quando, e soprattutto se, Duterte fermerà mai questo Far West. L’uomo che ha stramaledetto l’alleato americano per abbracciare l’ex nemica Cina ora dice che la prossima guerra la farà al terrorismo: “Dove credete che andranno tutti i fighters dell’Isis che si ritira da Aleppo? Indonesia, Malesia, Filippine”. Non è una previsione sbagliata: ma non sarà anche un’altra scusa per tirare ancora di più la corda della democrazia? I militari, che di guerra se ne intendono, la vedono diversamente. “Da Abu Sayaf agli altri gruppetti islamici lì vinciamo solo se giochiamo di sistema: la forza senza politica non basta” avverte Restituto Padilla, portavoce delle Forze Armate, sorseggiando Ginger Turmeric Tea (“Ottimo per le giunture: e lo dico dopo 2700 ore di elicottero “) nel quartier generale di Camp Aguinaldo. Il generale applaude agli sforzi dello sceriffo: “La tregua con gli islamici del Moro National Liberation Front era stata intavolata da tempo: ed è stato lui a dare la svolta decisiva”. La differenza è che con Isis e Abu Sayaf non si negozia promettendo l’impunità. Ma che importa? E soprattutto: a chi? L’ultimo sondaggio di PulseAsia Research, è vero, dà don Rodrigo in calo di 5 punti - ma dal 91 all’86%. E nelle baracche la gente continua a sostenere la strage dei cattivi: sempre meglio lo sceriffo dei politici che hanno rubato fin qui. Dov’è allora lo scandalo se da Quezon City a Paraiso Street i bambini fanno ogni sera ciao ciao con la manina ai fotografi che si lasciano i cadaveri alle spalle? Le jeepneys coloratissime e senza fari, che qui sono i bus dei più poveri, non smettono di imbarcare pendolari e perdinotte neppure a quest’ora. Sono le 5 del mattino a Manila: domani è un’altra notte.
Fonti: Repubblica.it

impaginato da Benedetta Iebole